Intervento della coordinatrice in GC sull'accompagnamento alla morte nelle strutture ospedaliere
/Care colleghe, cari colleghi,
Onorevole Presidente
On Consigliere di Stato;
partiamo subito da una premessa fondamentale: come dice Benigni la vita è bella e vale la pena di essere vissuta. Lo Stato ha il dovere di proteggere la nostra vita dall’inizio alla fine, e questo dovrebbe essere la priorità in assoluto di ogni stato democratico. Purtroppo però il numero delle persone che tentano il suicidio (in Svizzera 1 su 10) e ci riescono , soprattutto giovani (e la Svizzera è tra i primi stati per tasso di suicidi), mi fa pensare che questo obiettivo è ancora lungi dall’essere raggiunto e che la qualità di vita, anche in Svizzera, non è delle migliori. Se si leggono i dati statistici risulta che tra gli adulti il tasso di suicidio è diminuito, ma è aumentato in modo esponenziale l’utilizzo di psicofarmaci, mentre la maggioranza dei giovani che ricorrono al suicidio sono stranieri residenti e disoccupati.
Sono questi i dati su cui dobbiamo riflettere, e non scandalizzarci per il numero di suicidi assistiti (esclusi tra l’altro dalle statistiche sui suicidi) che perlomeno assicurano un mezzo non cruento di passaggio oltre l’Acheronte.
Ma la nostra iniziativa non riguarda quello che succede all’esterno delle mura dei nosocomi o degli istituti di lunga degenza. Accoglierla o bocciarla non cambierà nulla nel mondo che sta là fuori, né nel numero di suicidi assistiti.
La nostra iniziativa ha come unico scopo quello di ancorare nella legge sanitaria il diritto costituzionale al suicidio, e di permettere l’assistenza al suicidio anche all’interno delle mura degli istituti di cura. La nostra iniziativa vuole impedire che i pazienti che decidono di farsi assistere nel loro intento, siano obbligati ad uscire dalla struttura, con grande disagio fisico e morale. Sia ben chiaro, già oggi ci sono delle strutture che lo permettono e strutture che non lo permettono, e la situazione rimarrà tale e quale anche nel caso in cui il Parlamento dovesse aderire al rapporto commissionale. L’iniziativa voleva semplicemente unificare le pratiche in tutto il Cantone, ed evitare anche gli abusi in questo ambito.
All’interno delle strutture sanitarie e degli istituti di lunga degenza, l’obbligo di protezione della vita umana, deve tradursi in condizioni di degenza ottimali, che non favoriscano il desiderio di porre fine alla propria esistenza. Tuttavia, malgrado tutta la buona volontà del personale medico e sanitario, ci sono momenti e situazioni che possono rendere la vita insopportabile. Proprio per tener conto di queste situazioni il nostro Stato, che è pur sempre uno STATO LAICO, permette di accelerare la fine della nostra vita tramite l’eutanasia attiva indiretta (per esempio la somministrazioni di forti dosi di morfina per alleviare i dolori) l’eutanasia passiva (sospensione di ogni terapia) e, a determinate condizioni, anche tramite il suicidio assistito. Per l’art. 115 del Codice penale, l’assistenza al suicidio è punita solo se fondata su motivi egoistici. Tuttavia, mentre l’aborto, l’eutanasia attiva indiretta e l’eutanasia passiva fanno parte della professione medica, chiunque, anche senza una formazione sanitaria, può praticare l’assistenza al suicidio (e vi dico subito che ciò non mi entusiasma) a condizione tuttavia che la persona sia in grado di intendere e volere e che sia in grado di assumere da sé il veleno mortale, ottenuto su ricetta medica.
Volenti o nolenti, e contrariamente a quanto scritto nel rapporto commissionale, il diritto al suicidio è un diritto, protetto sia dalla Costituzione federale che dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 8) e deriva dal diritto all’autodeterminazione di ogni essere umano, fondamento principe dei diritti fondamentali dell’uomo Il diritto al suicidio, che implica il diritto di scegliere il momento e le modalità della propria dipartita, è stato riconosciuto in una sentenza del 2006 dal Tribunale federale, e ribadito più volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quello che non è stato per ora risolto in modo dirimente, e di cui discute la dottrina, è se a questo diritto corrisponde un diritto positivo del cittadino di pretendere dallo Stato che metta a disposizione mezzi (per esempio il barbiturico letale senza ricetta medica) e personale per poter porre fine alla propria esistenza.
Contrariamente a quello che si è detto e scritto a sproposito, l’iniziativa non chiede e non potrebbe nemmeno chiederlo di obbligare i medici o il personale di cura a prestare assistenza alle persone degenti che chiedono di ricorrere alla dolce morte. Per ora, come ribadito dall’ASSM e dalla Commissione etica nazionale l’assistenza al suicidio non fa parte dei doveri del medico, e ogni medico, ogni assistente di cura ha quindi il diritto di rifiutare l’assistenza: infatti l’obiezione di coscienza è riconosciuta e protetta.
Ciò non deve però vietare , come ribadito sia dall’ASSM che dalla Commissione nazionale d’etica in medicina, l’esercizio di un diritto costituzionale all’interno degli istituti di cura.
L’iniziativa non chiede nemmeno, come hanno scritto in molti, di aprire le porte ad associazioni come Exit e Dignitas, ma è chiaro che se non si trovano medici disposti a farlo all’interno della struttura di degenza, i pazienti potranno ricorrere a queste associazioni.
L’iniziativa è stata presentata nella forma generica proprio per permettere alla Commissione sanitaria di porre tutte le condizioni che riteneva opportune, com’è stato fatto nei Cantoni in cui si è deciso di legiferare in merito al suicidio assistito nei nosocomi e negli istituti di lunga degenza: per esempio una doppia perizia medica o il permesso accordato solo dopo che il paziente è stato informato sulle possibili terapie alternative o ancora l’accertamento della reale e libera volontà del paziente o ancora dopo l’accertamento medico che la vita del paziente è in fase terminale. Chi meglio del corpo medico e infermieristico può assicurarci che tutte le verifiche del caso vengano fatte con scienza e coscienza, chi meglio di loro ha le competenze per informare il paziente delle alternative terapeutiche, chi meglio di loro ha quel rapporto intimo ed empatico con il paziente di cui abbiamo bisogno.
Rinunciare a legiferare in merito al suicidio assistito significa lasciare la porta aperta agli abusi, tanto temuti dalla stessa Commissione sanitaria e anche da noi.
L’iniziativa in sostanza non fa che riprendere un diritto costituzionale. L’iniziativa chiede soltanto che tale diritto sia scritto nero su bianco nella legge sanitaria , affinché nessun istituto pubblico o sussidiato possa più negare ai pazienti di accedere alla dolce morte all’interno della strutture di cura. E ricordiamoci che i cittadini non possono scegliere liberamente la casa anziani, devono andare nelle strutture convenzionate con il Comune di domicilio e pertanto mi sembrava giusto che tutte le strutture, laiche o religiose, fossero assoggettate alle stesse regole.
Ma la Commissione scrive che gli ospedali e le case di cura devono guarire e curare e non uccidere. Si è vero, e ci mancherebbe altro, ma a volte è necessario decidere, non tra la vita o la morte, ma tra il bene del paziente ed il male che comporta il prolungamento della sua vita, da qui le pratiche di eutanasia attiva indiretta e di eutanasia passiva, che oggi nessuno contesta più e che vengono praticate normalmente negli istituti di cura.
Nel rapporto si tessono le lodi delle cure palliative. Ma, e il corpo medico lo sa bene, le cure palliative non sempre riescono ad assicurare una dolce morte al paziente. Lo dice la stessa Associazione Svizzera delle scienze mediche ricordando che il modo di affrontare la morte dipende molto da quello che abbiamo vissuto. Inoltre, ci sono pazienti che non reagiscono o reagiscono male ai medicamenti, e ci sono persone che non desiderano essere sedate.
La Commissione respinge l’iniziativa per non mettere in imbarazzo il personale di cura e gli altri ospiti delle strutture. Ma già ora ci sono camere a più letti che ospitano i degenti in fase terminale. D’altra parte, se la Commissione si fosse degnata di ascoltare anche i rappresentanti del corpo infermieristico avrebbe saputo che gli infermieri e il personale di cura sono preparati anche al suicidio assistito. Basterebbe creare all’interno delle strutture una equipe appositamente destinata al trattamento delle richieste di suicidio assistito, come è stato fatto per le cure palliative.
La Commissione teme l’effetto emulazione e l’istituzionalizzazione del suicidio assistito? Un timore legittimo, ma, dove le pratiche sono ammesse, i casi sono veramente pochissimi, come scrive la stessa commissione. Ed è giusto così. Quello che semmai bisogna fare è vigilare affinché le condizioni di degenza non favoriscano la richiesta di suicidio assistito, che non deve diventare l’alternativa a condizioni di degenza indignitose o a cure insufficienti. Purtroppo anche su questo c’è molto da fare, e gli ultimi casi emersi nel nostro cantone lo confermano. E’ da quando avevo tredici anni che frequento le case anziani e, se la struttura muraria è migliorata, io le vedo ancora come una grande sala d’aspetto dove gli ospiti sono posteggiati in attesa di passare la soglia. Per questo i Verdi insistono per promuovere strutture intergenerazionali, dove entri la vita e si rinnovi.
Infine nel rapporto commissionale c’è un grande assente: il paziente. Infatti nessuno si è degnato di ascoltare anche le associazioni dei pazienti.
Nel rapporto sono riportate le preoccupazioni dei medici, dei teologi, dei cattolici, e del Consiglio direttivo dell’OMCT. Io ringrazio i medici per le loro premurose considerazioni, ma anche i medici non sono onnipotenti e non possono curare tutti i nostri mali. La loro etica è tanto importante quanto quella dei pazienti. Anche noi abbiamo una nostra concezione della vita e delle morte. E se io voglio andarmene conservando tutta la mia lucidità mentale, e voglio congedarmi dai miei cari nel modo che ho scelto, nessuno me lo deve impedire. La vita e la morte sono un mistero e ognuno ha il diritto di interpretarlo come crede.
Accogliere la pratica del suicidio assistito nelle strutture di cura non significa abbandonare il paziente, come scrive la Commissione. Piuttosto lo si abbandona a sé stesso quando lo si obbliga ad uscire dalle mura che lo ospitano, e qui mi permetto di citare uno stralcio del rapporto della Commissione d’etica nazionale per la medicina (pag. 13 del parere 9/ 2005):
“Dalle esperienze maturate in alcune strutture emerge che i pazienti tenuti a lasciare la clinica o la casa anziani per farsi assistere nel suicidio, vivono molto male l’interruzione delle cure. I rapporti con i medici e il personale curante si interrompono e il sostegno viene a cadere proprio nel momento in cui il suicida ne avrebbe maggiormente bisogno………
E concludo invitando questo Parlamento a respingere il rapporto commissionale, per le medesime ragioni già evocate dal Professor Borghi nel quaderno dell’EOC, dedicato al suicidio assistito, e qui cito alcuni stralci della parte conclusiva:
“Stante d’un lato l’impasse legislativa in cui langue il Parlamento federale, d’altro lato la nascita di sporadiche e talvolta incon- gruenti regolamentazioni autonome di singoli istituti assistenziali, appare opportuno che il legislatore cantonale, precipuamente competente in tale ambito, adotti principi restrittivi, intesi in par- ticolare a garantire la verifica della capacità di discernimento della persona intenzionata a suicidarsi e della consapevolezza che tale intenzione è irrevocabile e meditata tenendo conto di tutte le risorse sociali o terapeutiche alternative disponibili.
Adempiute dette condizioni, il diritto costituzionale di decidere il momento della propria morte include anche quello di determinarne le modalità, in specie quello di far capo a prodotti che assicurano con certezza una morte sicura e indolore, in un contesto decoroso, suscettibile altresì di rispettare la sensibilità dell’entourage.
Non esiste un diritto sociale ad ottenere dallo Stato la messa a disposizione di strumenti e persone al fine di prestare assistenza al suicidio; ciononostante, il contestuale obbligo di prevenire abusi, di favorire ogni possibilità alternativa al suicidio, di intervenire se necessario con provvedimenti coatti nel caso i (dirimenti) presup- posti summenzionati non siano dati e di assicurare la disponibili- tà ed il corretto uso di prodotti stupefacenti, nonché il fatto che frequentemente e tipicamente la domanda di suicidio sia espressa in un contesto terapeutico, sovente in una struttura stazionaria,
impongono un’accresciuta responsabilizzazione anche in questo settore dell’unica categoria professionale il cui statuto offre garan- zie deontologiche o di professionalità atte a rispondere a tutti i requisiti summenzionati: nell’ovvio rispetto assoluto del diritto all’obiezione di coscienza, il medico (lo psichiatra in caso di malattia psichica) è lo strumento più idoneo ai fini dell’esecuzio- ne del compito statale di prevenzione della vulnerabilità del sui- cidale e allo svolgimento dei compiti summenzionati. Inoltre, non vi è necessariamente soluzione di continuità, vi è anzi coerenza tra l’attività terapeutica stricto sensu e l’assistenza all’ultimo gesto della persona intenzionata a por fine ai suoi giorni: la coerenza dell’empatia di un’intima relazione terapeutica.
Pertanto, la legislazione cantonale dovrebbe, perlomeno, da un lato imporre l’accertamento medico, eventualmente psichiatri co, della capacità di discernimento e degli altri summenzionati presupposti legittimanti l’assistenza al suicidio e d’altro lato autorizzare il medico anche sul piano deontologico a partecipare all’ultimo definitivo atto, non necessariamente solo per i malati terminali.
Infine, viola la Costituzione il divieto di attuare il suicidio assistito in strutture stazionarie, anche ospedaliere, pubbliche; in tale ambi- to va tuttavia rispettato con particolare rigore l’obbligo di verifica- re la sussistenza dei presupposti che ne autorizzano l’esecuzione e di assicurare un contesto protetto, affidabile e dignitoso…”.
Se questo Parlamento dovesse rinunciare a legiferare sulla pratica del suicidio assistito all’interno degli istituti di cura, tutto rimarrà come attualmente. Nessuno la vieta, né la legge né le direttive dell’ASSM, né il parere della Commissione etica nazionale. Ogni istituto potrà decidere se accogliere o meno questa pratica, e come regolamentarla. Ma sia chiaro che chi la vieta e obbliga il paziente ad uscire dalle mura che lo ospitano, rifiutandogli anche solo la possibilità di chiedere l’intervento di associazioni di aiuto al suicidio, contravviene alla Costituzione svizzera e alla Convenzione dei diritti dell’uomo.
Se accettiamo il rapporto commissionale noi avremo perso anche l’occasione di adottare un regolamento uniforme e valido per tutti.
Ricordo da ultimo che in un caso trattato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo la Svizzera è stata bacchettata proprio perché, rinunciando a legiferare in questa materia, impedisce di fatto ai pazienti di conoscere in anticipo le condizioni alle quali il loro diritto costituzionale può essere esercitato, e le regole dell’ASSM non sono sufficienti, anche perché non hanno rango di legge. Anche la Commissione nazionale di etica medica ha postulato la necessità di disciplinamento giuridico del suicidio assistito, ma è rimasta inascoltata.