Togliamoci le castagne dal fuoco.
/Faccio riferimento ai due interessanti quanto diversamente drammatici articoli pubblicati sull’Agricoltore del 5 ottobre scorso, uno a pagina 4 a cura di Andrés Bignasca e l’altro a pagina 9 di Francesco Bonavia, in cui noto delle interessanti similitudini e correlazioni che vorrei esporre qui di seguito.
Il primo articolo tratta della pessima situazione contadina mondiale dove l’assurdo vuole che chi produce alimenti oggigiorno fa la fame. Il secondo tratta di un problema che definirei “grasso”, che rispecchia una situazione non meno tragica eticamente e al contempo abbondantemente carente di buon senso e creatività.
Da una parte, realtà contadine di paesi “poveri” e popolazioni affamate e sfruttate per foraggiare i nostri obesi privilegi d’abbondanza e spreco di risorse (non solo) alimentari pregiate. Dall’altra una situazione paradossale: un incremento di regolamenti che impediscono sempre più di decidere liberamente cosa e come produrre, dovuta in parte alla nostra mollezza di cittadini agricoltori e artigiani nel reagire davanti all’assurdità di certe situazioni.
Leggi e regolamenti sono fatti dalle persone e in quanto tali modificabili, se vediamo che cozzano contro il buon senso. Quando un’ordinanza o un’organizzazione sono talmente mastodontiche e inflessibili da considerare le micro-realtà contadine e artigianali una “quantità insignificante perché non rendono abbastanza”, allora basta legiferare in modo più leggero o creare un’organizzazione (associazione regionale) che faccia realmente gli interessi delle micro e piccole realtà nostrane. Soprattutto se il territorio è così complicatamente variegato e parcellizzato come il nostro.
Ora, per non restare fermi in eterno su una questione federale ma che in definitiva, per le castagne, riguarda soprattutto il Ticino e le valli del Grigione italiano e sulla scorta dell’ordinanza federale dei prodotti biologici dove sta scritto che sono da segnalare le aree di raccolta selvatiche, potremmo proporre quanto segue: 1) considerare l’area (totale) boschiva ticinese come un’unica area di raccolta selvatica, essendo essa messa ufficialmente a catasto. 2) Chiedere che sia il Cantone stesso a fare richiesta di (una sola) certificazione per tutto l’areale in questione, e questo senza andare a scomodare le migliaia di proprietari dei boschi ticinesi per “obbligarli” ad una inutile quanto assurda e costosa certificazione. D’altronde il Cantone ha già un’azienda agricola bio; non vedo perché non potrebbe fare altrettanto per tutti i boschi. Saremmo il primo Cantone a intraprendere una tale richiesta; e potrebbe essere pure un’ottima “campagna mediatica” a livello nazionale. A quel punto i prodotti da bosco, castagne comprese, sarebbero di fatto bio quando arrivano ai centri di raccolta. Ai raccoglitori di castagne che le portano presso i punti prestabiliti, verrebbe rilasciato un documento controfirmato dove dichiarano la provenienza dei frutti e la quantità ritirata e pagata. E poco importa se non hanno la Gemma BioSuisse. Anzi, sarebbe meglio un semplice marchio che definisca un bio ticinese, attualmente inesistente. Abbiamo bisogno di organizzazioni sobrie e leggere che evitino di mettere in ginocchio la volontà di continuare a fare azienda e permettano ai piccoli produttori e agricoltori di sopravvivere e di creare sinergie positive di auto aiuto. Altrimenti il rischio (che a mio avviso è già reale da diverso tempo) è che regolamenti sempre più esclusivi butteranno fuori mercato centinaia di persone, aziende e specialità peculiari, che tanto fanno il vanto come specchietti per allodole per i grossi e cari “Brand” dell’agrobussines, marchi compresi. Non passa settimana che si incontrano persone stufe di collassare sotto esigenze di protocolli assurdi o di sentirsi dire che siamo troppo piccoli o che produciamo troppo poco per stare al passo di machiavelliche regolamentazioni. Perché se è vero che se smettessimo di coltivare non moriremmo di fame come nel Terzo Mondo (almeno non nel corto termine), è anche vero che ci suicideremmo aziendalmente parlando; e a volte, purtroppo, non solo aziendalmente, visto il numero di contadini suicidi in Svizzera e nel mondo. Inoltre, chi lavora essenzialmente in locale a mio avviso non ha bisogno di un marchio bio da “multinazionale”. Il Ticino è piccolo e se lavorassimo male o ci capitasse un errore, anche involontario, i clienti verrebbero a saperlo. E nessun marchio potrebbe venirci in aiuto. L’unica cosa che veramente conta è la fiducia reciproca tra produttori e clienti; costruita in anni, con grosso impegno. La costanza e la solidarietà di chi ti conosce e ti compera i prodotti, a mio avviso e per esperienza trentennale, ha maggior peso di un marchio, che non caratterizza il nostro prodotto ed è attualmente lontano dai bisogni dei piccoli produttori.
Insieme possiamo cambiare la situazione. Io ci sono.
Pierluigi Zanchi, produttore bio, Gerra Piano