Media, donne e violenza: un trinomio da non sottovalutare

Sembra essersi placato il polverone sollevato in merito alla trasmissione della RSI «Politicamente scorretto», in cui due ragazze sono state impiegate come manichini in un quiz di anatomia. Prima di lasciare cadere nel dimenticatoio la vicenda è bene trarne una riflessione generale, soprattutto perché l’indignazione palesata da alcuni è stata fin troppo banalizzata da altri.

La distorsione dell'immagine della donna è diventato un tema così diffuso da aver assuefatto il pubblico, facendolo scivolare in una sorta di autorizzazione inconscia e involontaria, anche verso celate forme di violenza. “È normale! Che c’è di strano?” È infatti uno dei commenti che è andato per la maggiore tra chi si è espressa/o sul caso sopracitato. Ma di normale non c’è proprio niente. Anzi. È importante ricordare che chi ha il compito di raccontare la realtà, si fa carico di un'importante responsabilità, perché forma il pensiero dell'opinione pubblica e, di conseguenza, può arrivare a influenzarne i comportamenti.

Ad esempio, il ‘delitto passionale’ o il ‘raptus di follia’ sono espressioni cristallizzate nel codice giornalistico, Ticino compreso, per descrivere l’uccisione di una donna per mano di un uomo; per descrivere un femminicidio. Un linguaggio corrente, che rimanda a un passato apparentemente non lontano, ovvero quello del “delitto d’onore”, che sopravvive nella locuzione “se l’è andata a cercare”.  

“Minuta e avvenente” sono stati, per esempio, gli aggettivi usati per definire la ragazza morta all’hotel La Palma au Lac qualche mese fa; come se la sua fisicità legittimasse, in qualche modo, il presunto reato da lei subito. “Porterai i tacchi a spillo e metterai il rossetto?” sono invece il tipo di domande poste in occasione di un’intervista (da parte del CdT) ad alcune neodeputate poco dopo il 9 aprile; minimizzando all’aspetto fisico le competenze delle stesse. Inoltre - per tornare al caso che ci ha fatto discutere - rientrano ormai nella quotidianità immagini di corpi femminili oggettivatati e sessualizzati, dove veniamo esibite in un passivo mutismo, attraverso il nostro corpo, o pezzi di esso, sempre giovane e bello (lo stesso vale per gli uomini, ipermuscolosi e baldanzosi).

Chi veicola questa rappresentazione della donna, del suo ruolo e della sua identità, contribuisce a costruire un’immagine distorta, non conforme alla realtà, rendendo così più faticoso accettare e distinguere la figura femminile in una veste differente. In questo caso, una donna che si impone contro certi diktat stereotipati viene additata, nel migliore dei casi, come mestruata o isterica. Ed è qui il problema, l'anomalia, perché più si sollecita la dissonanza tra immaginario e realtà e più si aumenta la possibilità di conflitti. La cultura d’oggettivizzazione del corpo, l’idea della sottomissione al potere maschile, l’idea del “vestita così se l’è cercata”, sono alcuni dei fattori che, purtroppo ancora per alcuni, legittimano la violenza di genere.

I media ticinesi non hanno mai raggiungo, e nemmeno si sono mai avvicinati, agli standard di altri paesi. Ciò non ci legittima a banalizzare quei deboli tentativi di inserire nei nostri canali d’informazione certe strategie acchiappa consensi, che tutto hanno, tranne che il rispetto per la donna (o l’uomo qualora fosse implicato nel medesimo contesto). Tutto ciò andava puntualizzato e ricordato, non solo perché chi informa e intrattiene deve essere a sua volta informato e sensibilizzato, ma perché una perpetua narrazione scorretta può provocare assuefazione verso l’anormale aggiungendoci il rischio di pericolose ritorsioni.